Dal sogno alla missione: la pace come impegno quotidiano
Pace. E’ la parola che ogni giorno e di fatto ogni ora sentiamo di più. Il fatto è che più che una realtà è un auspicio, un desiderio, una tensione, una ricerca, un impegno, una disponibilità.
Però sono tutte parole perchè nei fatti da qualunque parti ti giri ne vedi l’impraticabilità, l’impossibilità, per taluni versi persino l’inanità.
E dire che un po’ di anni fa, un bel po’ di anni fa, la pace nel mondo era diventata uno stereotipo delle risposte delle candidate a miss Italia alla domanda sui loro desideri. Al punto da diventare una gag indentiraria della coppia di cabarettiste Katia e Valeria che per l’appunto hanno litigato e ognuna per la propria strada.
Pace è la prima parola che ha pronunciato papa Leone XIV quando è stato eletto lo scorso 8 maggio scorso affacciandosi alla loggia della Basilica di San Pietro. E continua a ripeterla in ogni suo intervento, pressoche ogni giorno e pressoche, diciamoci la verità, del tutto inascoltato, da chi dovrebbe e potrebbe fare e volere la pace per uno dei 64 conflitti attualmente in corso (tanti dicono che siano ma non so fino a che punto il conto è esatto e/o attendibile).
Nei giorni scorsi nell’anniversario dell’11 settembre passato alla storia come l’attacco terroristico alle torri gemelle di New York nel 2001 non so perchè mi è tornato alla mente, come in uno scatto di memoria, il titolo di un libro di papa Giovanni Paolo II, oggi santo, “Varcare la soglia della speranza”, pubblicato nel 1994, con lo scrittore Vittorio Messori. Quel libro era in parallelo la ‘lettura’ laica della ‘Tertio millennio adveniente’, la lettera apostolica dello stesso pontefice con la quale si rivolgeva “Ai Vescovi, ai sacerdoti e diaconi, ai religiosi e alle religiose, a tutti i fedeli laici” per annunciare e indicare il cammino del Giubileo dell’anno 2000, quello del passaggio di secolo e soprattutto di millennio.
Ebbene anche allora la speranza era il tema dominante delle attese del mondo e non solo della Chiesa in quell’anno di ‘passaggio’ epocale che per i cristiani è anzitutto ‘anno di grazia’ perchè fa memoria anzitutto dell’Incarnazione di Gesù e della sua opera di salvezza del genere umano.
Venne poi l’11 settembre e tutto sembrò precipitare in un orizzonte apocalittico.
Ma il “duc in altum” rilanciato dallo stesso papa Wojtyla nella esortazione apostolica “Novo millennio ineunte” a conclusione dell’anno giubilare 2000, costituì il viatico non solo e, aggiungerei, non tanto per la Chiesa ma per il mondo intero a guardare ancora con speranza al presente e al futuro.
Sono passati gli anni, sono passati i papi e stiamo avviandoci alla conclusione del Giubileo che papa Francesco ha indetto con la bolla ‘Spes non confundit’, la speranza non delude e che della speranza ha fatto proprio il paradigma. Nello stesso anno giubilare Francesco ha passato il testimone prima di tutto della fede a Leone il quale come ricordato ha dato corpo alla speranza con l’indicazione della pace come obiettivo primo. E per essere ancora più chiaro ed incisivo nel salutare con la parola pace ha aggiunto: “Questa è la pace di Cristo, una pace disarmata e disarmante” coniando così una sorta di slogan che è rimbalzato e rimbalza continuamente ai quattro angoli del mondo. Cercando di sovrastare il fragore delle armi e delle parole vacue ma, ancor peggio, piene invece di odio e di violenza, dalla politica alla canzonette, dai post sui social alle chiacchere da bar.
“Una pace disarmata e disarmante” è la mission affidata al popolo di Dio prima ancora che alla Chiesa da Leone XIV di cui è stato anticipato di qui a poco la sua prima esortazione e a seguire un’enciclica di carattere sociale che cercherà di aiutare a capire una complessità sempre più problematica a tutti i livelli e che coinvolge e comprende la stessa essenza dell’uomo.
“Una pace disarmata e disarmante” è il titolo che le Acli cittadine (circolo Leone XIII... guarda caso) hanno voluto dare al loro convegno di domenica 21 settembre in mattinata in sala Gandini nell’80° della loro fondazione ma soprattutto della loro presenza.
Vale la pena, a cominciare da quella porzione di popolo di Dio che abita questa nostra città, di andare a sentire, ascoltare (che è cosa un po’ diversa...), riflettere a agire. Iniziando a fare pace in concreto con noi stessi, con chi ci sta accanto e d’intorno, e via via allargandoci con chi incontriamo nella nostra vita, tutti i giorni.