Dopo la proiezione al S. Rocco del film ‘Il ragazzo dai pantaloni rosa’

Una storia di bullismo e cyberbullismo omofobo realmente accaduta ad un adolescente, Andrea Spezzacatena e conclusasi tragicamente, quella presentata in pellicola, “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, il 31 marzo scorso presso il teatro S. Rocco. 

Proposta da don Paolo Sangalli, vicario per la pastorale giovanile in città e con gli interventi di Stefania Crema, avvocato, componente della rete Ali, e Fabio De Lorenzo referente per bullismo e cyberbullismo della scuola Don Milani, l’iniziativa è stata rivolta a studenti e studentesse, educatori  e educatrici, insegnanti e genitori per stimolare alcune riflessioni sui temi che interessano gli adolescenti e il loro mondo. 

La partecipazione ampia e interessata si è conclusa con alcune considerazioni da parte degli esperti, ma anche con interventi da parte dei giovani presenti. Le tematiche che riguardano i giovani, o meglio come attualmente si usa dire il “disagio giovanile”, sono sulla bocca e nei pensieri della più parte di noi, ma capita che incontri come questo vadano semideserti o si rivolgano solo a nicchie di persone già attive. 

Probabilmente pensiamo di essere sufficientemente consapevoli e a conoscenza di queste problematiche che, al di là della sensazione di sconcerto che suscitano in noi adulti, ci fanno però paura, ci obbligano a metterci in gioco, a porci delle domande e a darci risposte cercando strategie per affrontare le difficoltà dei nostri figli o nipoti. Giovani lo siamo stati tutti, con le difficoltà non solo di chi deve crescere e trovare la propria identità e libertà di essere sé stessi, ma anche con le criticità legate ad ogni epoca accompagnata da momenti storici e sociali particolari. 

La situazione attuale è probabilmente ancor più caratterizzata da incertezza per il futuro e da drammatica solitudine. Un bambino, un adolescente, così come un giovane, per crescere hanno bisogno, oltre che della competenza genitoriale, anche “del villaggio” che li circonda, li sostiene, fornendo gli elementi per dare un “senso” a quello che accade attorno a loro e che li riguarda. 

Oggi è difficile avere l’opportunità di godere di questo “villaggio” e i giovani, pur facendo tra loro gruppo, rimangono soli, ad affrontare con sofferenza i problemi della loro età: spesso tra loro non sanno darsi risposte che li motivino verso il futuro e la capacità di discernere. E’ così che, con pochi modelli che educano alla fiducia in una prospettiva futura e in un mondo ipernarcisistico in cui tutto cambia troppo rapidamente, i giovani si trovano a fare i conti solo con un presente spesso drammatico. 

In questo presente gli unici strumenti più facilmente a disposizione sembrano essere i coltelli, il bullismo, il ritiro sociale, l’autolesionismo, le dipendenze prima fra tutte quella dai social che, a fronte delle carenze educative in altri settori, offrono fin troppo bene e velocemente lezioni che non sempre si rivelano giuste. 

Attraverso videogiochi e video shock che circolano, l’esposizione quotidiana degli adolescenti a contenuti violenti e non rispettosi dell’altro annulla l’empatia. Dilaga l’emulazione di fatti di cronaca nera che incitano all’odio: i sistemi di controllo sociale e dei famigliari risultano sempre troppo lenti per stare al passo della velocità con cui si incita alla violenza attraverso messaggi tossici. 

Mentre le famiglie e la scuola faticano ad educare alla gestione e risoluzione dei conflitti, i social media educano, in modo selvaggio e senza filtri, ad affrontare le situazioni complesse non con le parole, ma con i coltelli o con i like. 

Spesso non riusciamo a chiedere ai nostri figli “come stai?”, non li sappiamo ascoltare e ci limitiamo a rendere loro la vita facile o a chiedere loro elevate performance e successi che talvolta generano ansia da prestazione o delusioni. La scuola è fatica, il lavoro è fatica e l’amore stesso è faticoso e tutto ha un peso e un valore: nulla ci viene dispensato gratuitamente. 

Lo spazio del dialogo intergenerazionale richiede coraggio: è fondamentale che l’ascolto sia autentico ed accolga la fragilità e le paure dei nostri adolescenti restando loro vicini anche quando stiamo scomodi. 

Tutti i ragazzi e le ragazze hanno bisogno di una madre e di un padre, o anche di un insegnante che li ascolti e stia in relazione con loro, che li aiuti a identificare le proprie risorse e le specificità che li contraddistinguono e che saranno il loro valore personale. Per farlo occorre trovare le parole per promuovere i sentimenti di ciascuno e conoscere ed educare le emozioni. 

L’Organizzazione mondiale della sanità stima che tra il 5 e il 15% degli adolescenti soffra di solitudine o di solitudini al plurale. Diverse sono le solitudini: da quella emotiva, quando mancano legami profondi intimi, a quella sociale che si esprime nella povertà di interagire con gli altri, a quella esistenziale che porta a svalutare la propria vita anche se si è circondati da persone care. Ciascuna di queste solitudini genera angoscia e minaccia il benessere e la salute fisica e mentale dell’individuo. 

E’ proprio questo il percorso che è accaduto al protagonista della nostra storia vera che si è sentito smarrito con i propri pensieri: chi ha assistito alla proiezione ha sicuramente provato la stessa frustrazione e la stessa angoscia. 

Chi è genitore o insegnante si sarà chiesto come poter essere d’aiuto ai ragazzi e alle ragazze: forse facciamo troppo cercando di anticipare ciò di cui hanno bisogno senza chiedere cosa desiderino e come si sentano. 

Nel dialogo con i giovani è necessario permettere ai sentimenti e alle sensazioni di penetrare e radicarsi nei nostri cuori specie se si tratta di sensazioni difficili e complesse. Possiamo stare vicini a loro e in relazione con loro anche se ci sentiamo scomodi. Anche questa sarà una “relazione” capace di ancorarci a loro e di trasformarsi nel buon seme dell’esserci. 

M.Pia Ferrario