In che modo possiamo avviare “il tempo della cura”? qual è la premessa necessaria per intraprendere un cammino che permetta, cito il significato di cura, un “interessamento solerte e premuroso per qualcuno o qualcosa”?

Per me la parola chiave che introduce necessariamente il nostro tema, è la parola gentilezza. Perché la gentilezza precede e accompagna ogni azione di cura.

In un mondo smarrito come il nostro, in un mondo dove domina la protervia e l’arroganza del vincitore e del più forte, la gentilezza sembrerebbe apparentemente fuori contesto.

E invece la gentilezza è proprio ciò che permette di iniziare a ripristinare una corretta relazione con gli esseri viventi e con le cose: la civiltà di una società si misura, infatti, anche dal suo modo di prendersi cura dell’altro, dalla sua capacità di pesare e controllare le infinite possibilità di ferire l’altro, dalla sua maggiore o minore indifferenza agli esseri viventi e ad ogni 

forma presente nel creato. Ogni nostra relazione, da quella più intima a quella più casuale, è in grado di sentire, di percepire la presenza o l’assenza della gentilezza: non se ne può prescindere; le parole, i silenzi, i gesti, gli sguardi possono ferirci o consolarci, possono scavare rancori o restituirci dignità e bellezza.

Goethe definì la gentilezza come “la catena che tiene unito il mondo”: crea ponti, la gentilezza, crea alleanze invisibili, impalpabili, eppure forti e contagiose. Gentilezza vuol dire uscire da sé stessi e aprirsi a ciò che ci circonda, accogliere gli altri, le loro idee, gli animali, gli alberi: vuol dire accettare le differenze e costruire una barriera contro l’arroganza e la paura. Vuol dire seminare un seme buono, che non nuoce, che non avvelena e che, chissà, sboccerà e si diffonderà. La gentilezza è una leggera ma potentissima forza che fa la differenza nelle nostre relazioni, comprese le più intime, in famiglia, tra gli amici, con le persone che diciamo di amare. Se Dio non fosse gentile con noi saremmo spazzati via dalla sua ira e, certo, ne avrebbe di buoni motivi per incenerirci o per tuonare contro di noi. Ma Dio è colui che non spezza la canna incrinata e che non spegne la fiammella tremolante, che “fa sorgere il sole suoi buoni e sui cattivi”; è colui che chiede di essere gentili perfino con la zizzania che rischia di invadere e prendere il sopravvento sul buon grano. Così Gesù, che si ferma, si china, si rialza con infinita pazienza e tenerezza, e che è sempre pronto a ricominciare, a spiegare daccapo, a dire: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore”.   

La gentilezza è anche legata alla gratitudine. Se sono gentile è anche perché sono grato e riesco a riconoscere nell’altro e nelle cose che mi accompagnano in questa esistenza, il soffio di Dio, quello che abita la vita. Come scrive Luigino Bruni: “La gratitudine è la regola prima della grammatica sociale. Quando viene rispettata e praticata c’è più gioia di vivere, i legami si stringono, gli uffici e le fabbriche si umanizzano, diventiamo tutti più belli”.

Attenzione, leggerezza, gratitudine: sono queste le qualità che accompagnano la gentilezza. Ma c’è un gesto che la presenta in maniera ancora più chiara. La benedizione.

La benedizione è un gesto gentile perché è l’uno che sussurra all’altro: “Tu sei degno come me. Se importante per me”. E allora, iniziamo dalla gentilezza. Ci farà bene, ci preparerà, ci permetterà di creare una sincera sintonia tra di noi e con il creato. Sarà il miglior modo di rendere vero, concreto, autentico il tempo della cura.     don Luigi Verdi