Quarta di Quaresima

Strettamente legata al digiuno è la pratica dell’astinenza, cioè della privazione di qualcosa. Oggi, di fronte alle parole “privazione”, “rinuncia”, anche i cristiani avvertono subito un sentimento di rivolta. Perché mai astenersi? Perché rinunciare? Al massimo, qualora vi acconsentano, i cristiani cercano risposte e motivazioni nell’ambito della carità e della solidarietà: rinuncia a vantaggio dei poveri, in vista di una maggiore e più equa condivisione dei beni. Ragioni assolutamente valide, ma non sufficienti a dare un fondamento esistenziale e spirituale all’astinenza. In verità ogni essere umano ha bisogno di atti di astensione, a volte radicale e perenne, altre volte parziale e temporanea, perché non si può fare esperienza di tutto, senza porsi dei limiti: il scegliere – quindi l’escludere qualcosa – e l’assumersi la responsabilità della scelta così come il riconoscere i propri limiti sono condizioni indispensabili per la maturazione umana, per il superamento della fase infantile e adolescenziale della propria vita. Diversamente si imboccano strade mortifere, cammini di dissoluzione e di violenza. Nella tradizione ebraico-cristiana c’è sempre stata attenzione all’astinenza dal cibo, sotto   forma  di  rinuncia  ad  alcuni  alimenti,   in particolare le carni: di ogni tipo in determinati periodo, oppure quelle di animali “impuri” o “sacrificati agli idoli” o ancora quelli uccisi senza versarne il sangue o cotti nel latte della madre: tutti rimandi al legame profondo tra carne e vita. Ancora oggi le chiese ortodosse conservano una legislazione molto precisa riguardo all’astinenza da alcuni alimenti e i fedeli vi si attengono con estrema serietà, mentre la chiesa cattolica propone l’astinenza dalla carne solo nei venerdì di Quaresima, permettendo la sostituzione di questa pratica con altre opere nei venerdì del resto dell’anno. Resta però difficile da comprendere perché mai astenersi dalle carni e poter invece mangiare il pesce, che oggi è cibo più ricercato della carne, sovente ben più costoso e, per molti, ormai più consueto della carne stessa. A nostro avviso non c’è stata sufficiente riflessione sul rinnovare la legislazione dell’astinenza, con un risultato veramente penoso a livello di linguaggio espressivo e un’incidenza risibile nella vita interiore del singolo credente. Eppure, secoli di tradizione spirituale cristiana avevano conservato queste pratiche dell’astinenza come un memoriale necessario: per vivere occorre sì mangiare, ma occorre anche cessare di mangiare e darsi un limite. Occorre cioè cessare di mangiare tutto e così non dimenticare che per poter mangiare carne occorre esercitare una violenza e uccidere l’animale. Infatti, l’alleanza stipulata da Dio con “ogni carne” è latrice di una dimensione antropologica che emerge nell’astinenza delle carni: l’uomo deve porsi un limite nella violenza che porta a “mangiare” l’altro e così ricordarsi l’esigenza di essere “differente” nella relazione con l’altro.