L’analisi di Don Francesco Scanziani sulle obiezioni al magistero di Bergoglio

Papa Francesco, non teologo ma profeta di pace”; “Un pastore, non un teologo”; Tra i numerosi commenti al ministero di papa Francesco, diversi hanno obiettato che, pur nella grandezza dei suoi gesti, non abbia espresso una teologia. Semplificando: è stato un pastore, ma non era un teologo.

Si dà per scontato che i due aspetti siano divisi e persino contrapposti. A volte insinuando una tensione con un raffinato teologo come papa Benedetto XVI. Diversi, sì, ma per questo in contrapposizione?

Papa Francesco certamente non ha inteso fare teologia, ma è forse compito di un papa la cui missione è, semmai, donare un magistero?

Che, poi, si insinui in lui il sospetto di una assenza di teologia è quantomeno ingenuo. Basti pensare alla sua formazione e la sua biografia. Del resto, se la teologia è l’intellectus fidei, chi oserebbe negare che papa Francesco avesse una singolare “intelligenza della fede” cristiana?

Per approfondirlo basta consultare i ben 11 volumi della collana la “Teologia di papa Francesco”, curata da Roberto Repole, allora presidente dei teologi italiani e ora cardinale arc. di Torino (Libreria Editrice Vaticana 2017).

https://www.libreriaeditricevaticana.va/it/182-la-teologia-di-papa-francesco

Vero è che non ha espresso il suo pensiero col linguaggio cattedratico di noi docenti: ma era il suo compito? Importante, semmai, era che la trasmettesse. Anzi, aveva il dono – raro – di saper dire cose difficili, in modo facile (a volte mandando qualche stimolante “tirata d’orecchi” ai teologi di professione).

Due esempi sono sintomatici: l’esordio da pontefice e i suoi documenti principali.

Tutti hanno negli occhi quegli inizi inattesi e sorprendenti di 12 anni fa, il 13 marzo 2013 (cf https://www.youtube.com/watch?v=8Kgl8N2AzlY). Le parole e i gesti stupirono: genuini, non studiati e trasmettevano una novità buona, che sapeva di Vangelo. Per gli addetti al lavoro non era improvvisazione, ma un linguaggio preciso, scelto e assimilato nel tempo. Notate tre particolari.

Anzitutto, il saluto: «Fratelli e sorelle, buonasera”: ci ha chiamati fratelli, non fedeli. Uno sguardo alla pari: quello della fraternità e del dono comune del battesimo.

Lui, poi, si è chiamato “vescovo di Roma”, evitando (senza negarla) la parola papa. Con questo ricordava a tutti il comune servizio alla comunità con il collegio dei vescovi, non una “superiorità” acquisita.

Infine, prima di benedire si è inginocchiato e ha chiesto di essere benedetto dal suo popolo («io vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica»), iniziando quella richiesta che lo avrebbe accompagnato fino all’ultimo: «Vi raccomando non dimenticate di pregare per me».

In pochi istanti tutta una visione di chiesa: il vescovo di Roma, primo tra i pari; pastore di una comunità di fratelli e sorelle nella fede; che si inginocchia davanti al suo popolo e ne chiede la benedizione. Ciò dimostra l’assimilazione della teologia della Chiesa (ecclesiologia) del Concilio Vaticano II.

Ecco la prima radice, chiaramente teologica.

La seconda affiora dai suoi testi. A partire da quello fondamentale Evangelii Gaudium (2013), un titolo che è già tutto un programma. Da un lato, lo stile attraente della gioia attraverserà tutti i suoi documenti. Basti osservare i titoli: Laudato sii (2015), Amoris Laetitia (2016), Gaudete et exultate (2018). La gioia proposta, però, è quella del Vangelo: questa è la radice. E il Vangelo non è una dottrina, ma una persona: Gesù. Non è solo ciò che il Signore ha detto, ma in senso proprio il Vangelo è lui stesso. Papa Francesco lo sintetizza sin dagli inizi con le parole del suo predecessore, (EV 7).

“Non mi stancherò di ripetere quelle parole di Benedetto XVI che ci conducono al centro del Vangelo: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva» (EV 7)”.

Che sintonia! Ognuno lo fa riecheggiare con il suo stile, ma entrambi suonano il medesimo spartito.

I tratti teologici nei documenti di papa Francesco sarebbero molti, ma ci basta indicare questa radice cristologica, da cui poi prendono unità gli altri temi: famiglia, ecologia, fraternità, ecc. Sono sviluppi tipici della Dottrina Sociale della Chiesa, avviata da papa Leone XIII e assunta programmaticamente ora dal nuovo papa. Non si è trattato di cedimento a mode del tempo, ma sviluppi dell’antropologia cristiana, di quella visione – nata dal concilio – che Giovanni Paolo II indicò come orientamento del suo ministero: «L’uomo via fondamentale della Chiesa».

Papa Francesco non ha scritto trattati teologici, ma conoscendo bene la rivelazione cristiana ha cercato di insegnarla e – soprattutto – farla vivere a tutti. Questo non è già teologia?

Di sicuro in sintonia con l’autorevole indicazione di Giovanni XXIII che, aprendo il Concilio Vaticano II, indicava come compito di annunciare “tutto il deposito della fede”, ma «quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale» (Gaudet mater Ecclesia).

In definitiva, “pastorale” non significa “meno dottrinale” o non teologico, ma semplicemente è il modo di trasmettere la fede proprio del magistero. Forse il dubbio iniziale, più che contrapporre teologia e magistero, si capovolge in una conferma del modo singolare in cui papa Francesco ha incarnato il ministero del vescovo di Roma. 

Don Francesco Scanziani